Un altro anello della stessa catena. Mi chiamo Giulia, 27enne siciliana, emigrata a Milano con una valigia piena di sciarpe di lana e ambizioni. Ho studiato Giurisprudenza presso l'Università Statale, laureandomi nei giusti tempi e a pieni voti. Volevo fare l'avvocato. Da sempre. Ho dovuto trascorrere tre anni tra studi legali, cancellerie e tribunali, prima di riuscire ad ammettere a me stessa che continuare per quella strada sarebbe stata una follia. Una autentica follia. Per mille, non uno, ma mille motivi. Da quello numerico: Milano, ad esempio, conta più di 20mila avvocati (in tutta la Francia ce ne sono appena il doppio). A quello venale: qualche giorno fa leggevo un'intervista al professor avvocato Carlo Rimini, secondo lui "ci sono avvocati che, a fine mese, racimolano qualcosa come 400-500 euro, soprattutto i più giovani, i nuovi poveri, precari che entrano a pieno titolo nella generazione call center". Si potrebbe obiettare (la signora Daniela, avvocato 55enne che ti ha scritto qualche giorno fa, certamente lo farebbe) che all'inizio è dura, che occorrono passione e sacrificio. Vedete signori, forse vi sorprenderà, ma se non sei la figlia di Rockefeller con passione e sacrificio l'affitto non lo paghi. Che poi, non è tanto il fatto di dover sopportare la salita iniziale, la pratica forense miseramente (se ti va bene) retribuita, l'esame di abilitazione (signora Daniela, non si tratta di un concorso, dovrebbe saperlo), l'estenuante attesa dei risultati, l'idea di doverlo ripetere, l'umiliazione di dover chiedere a tuo padre (che alla tua età aveva già acquistato casa, auto e preso appuntamento con la prima cicogna) 50 euro per un nuovo paio di scarpe. Sopporteresti la più rigida salita se ad un certo punto si potesse scorgere la vetta. La questione è la totale assenza di prospettive. L'idea che a 30 anni sarai esattamente ferma allo stesso punto. È questo che ti ammazza, che ti terrorizza, che ti disorienta. È questo che, ad un certo punto, ti porta a sventolare bandiera bianca. Ed è dura. Soprattutto quando hai sempre immaginato te stessa con indosso una toga e con un codice di procedura penale sottobraccio. Allora ricorri al piano B (io neanche ce l'avevo il piano B). Rispondi a qualsiasi annuncio di lavoro, invii così tanti CV che probabilmente anche il macellaio del quartiere ne riceve una copia. Fin quando ti selezionano per uno stage. Gridi al miracolo. Sei mesi, due lire e arrivederci e grazie. E di nuovo ricominci. Stesso iter. Un altro stage. Tanto, come si dice?, fa curriculum. Risultato? Perdi la tua identità. Accantoni le tue passioni. Ti guardi indietro e credi di aver sbagliato tutto. Collezioni brevi esperienze in contesti diversi. Non acquisisci solidi basi e competenze. Non impari una professione. Ti senti perennemente "provvisoria". Ti chiedi quale sarà il tuo posto e sai che non sarai tu a sceglierlo, ma il miglior offerente. È questo il meglio che l'Italia può offrire?! Questo, signori, è mobbing generazionale. Giulia Di Pasquale Presente sul blog: invececoncita.blogautore.repubblica.it/lettere/2017/03/24/ilnostroposto-questo-e-mobbing-generazionale/
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Ho un serio problema con le parole. Nel senso che ne uso sempre troppe e nel senso che non mi bastano mai. Sono trent’anni che #ilnostroposto lo cerco a suon di frasi, scritte per lo più. Inutile dire che ancora non l’ho trovato, almeno non del tutto. Ebbene si, io volevo scrivere per vivere, e tutto quello che sono riuscita a fare nel mio Paese è stato collezionare ogni improbabile colloquio, ogni assurda esperienza di non-lavoro e non-contratto e farne un libro. Grazie ad una piccola ed indipendente casa editrice del sud Italia, nel novembre 2014 pubblico Alice nel Paese dei call center. No, non sono diventata J.K. Rowling, ma (pur dovendo combattere per vedere il mio libro nelle vetrine delle librerie “più famose”, o semplicemente per parlarne in una piazza o in una scuola) il ritorno umano che ne ho avuto é stato impressionante. Sul mio conto c’erano sempre pochi euro, ma l’impagabile sensazione di aver finalmente realizzato il sogno della mia vita resta ancora oggi indimenticabile. Nel frattempo, pero’, io continuavo il mio iter. Una laurea in Lingue per la cooperazione internazionale in tasca (te l’ho detto che amo le parole, in qualsiasi lingua esse siano), un lavoro precario a 300 km da casa mia (perché pensare di lavorare nel mio campo nella mia città natale è come pensare di costruirsi una casa vacanze sulla luna), no ferie, no contributi, no diritti, solo “la fortuna” di aver trovato “qualcosa da fare” dopo anni di vassoi serviti, pannolini cambiati e improperi presi al telefono di un call center. Alternavo la rabbia alla rassegnazione, non sapevo quale tra le due dovessi far vincere. Per un po’ ho smesso anche di scrivere. Oltre ai voucher e ai contratti precari, abbiamo iniziato ad essere quelli che fuggono da ogni responsabilità, gli eterni adolescenti, eterni discotecari, eterni “non pronti”. Nel frattempo, guardavo i miei coetanei espatriati che si costruivano una carriera, o una famiglia, o entrambe le cose. Mentre io, stagista anche dopo tre anni nello stesso ufficio, non avevo potere decisionale neanche sul come organizzare le fotocopie, figuriamoci fiorire professionalmente o ambire a qualcosa di più. Perché si, Concita: forse sto abusandone di nuovo, ma di parole da dire sul trattamento riservato ai “dipendenti” o presunti tali ce ne sarebbero tantissime. Non è solo una questione di contratto, ma anche di stimoli, di rispetto, di stima del tuo lavoro – che fai nonostante tutto, e che magari cerchi di fare al meglio incurante delle condizioni non proprio favorevoli. Così è arrivato un giorno in cui la rabbia ha vinto sulla rassegnazione. Ho chiuso un paio di valigie, dato fondo al barile da cui ho raschiato tutto il coraggio che ancora restava e ho preso un aereo. Destinazione Bruxelles, alla scoperta di una città che non é solo cielo grigio come tanti credono, ma multiculturalità, ricchezza di esperienze e soprattutto possibilità. “Liberi di nascere, liberi di morire” e a questo punto anche liberi di espatriare. Un po’ mi dispiace doverlo dire: ma tutti i clichés sull’estero che è la terra dove riesci in quello che il tuo paese ti impedisce, nel mio caso si sono rivelati veri. Ho iniziato con un tirocinio più pagato del mio stipendio dopo 3 anni in azienda, al termine del quale mi hanno offerto un contratto (più pagato ancora) a tempo determinato, che ho rifiutato per accettarne uno a tempo indeterminato in un altro posto. Per ricoprire esattamente il mio ruolo. Perché la mia precedente esperienza è stata valutata come preziosa abbastanza per investire su di me. Forse alla fine mi sono arresa andandomene, dopo aver combattuto per anni, ma ho riacquistato parte della pace mentale persa per strada nel mio percorso lastricato di guerre inutili e situazioni ai limiti dell’assurdo. Come è ovvio che sia, questa non è El Dorado: di kilometri tra dove vivo e dove sono nata adesso ce ne sono oltre mille, e sullo smartphone l’app più importante è quella della compagnia aerea low cost a caccia del biglietto migliore per rubare due giorni “a casa”. Non è facile e mai lo sarà, probabilmente, ma voglio darmi tempo: l’Europa è meravigliosa. La verità è che in Italia ho provato a cambiare lavoro per oltre due anni, da nord a sud, ed il solo colloquio ottenuto mi offriva sei mesi di Garanzia Giovani a 600 euro, a 28 anni, con già due di esperienza. La verità è che ogni “manager” con cui io abbia avuto a che fare nel mio Paese non ha mai perso occasione per sottolineare quanto fossi fortunata che lui stesse anche solo parlando con me, e quanto ogni mia lamentela sarebbe stata inutile perché dietro di me c’era la fila. La verità è che qui, quando dopo 5 mesi ho cambiato azienda e mi è stato fatto un farewell party da colleghi e supervisor, con tanto di discorso, regalo, ringraziamenti per il mio lavoro e auguri per la mia carriera, io ho pianto il doppio di quanto avrei dovuto perché ho pensato a come a casa mia se lasci un posto di lavoro sei un idiota condannato alla disoccupazione, e poco importano i motivi per i quali tu abbia deciso di farlo. La verità è questa e finché non la si tocca con mano, rendersene conto è difficile, ma qui i “ragazzi”, i giovani uomini e donne, possono ancora sognare e rifiutare qualcosa di accettabile per qualcosa di migliore. A noi sono rimaste le parole e basta, loro hanno ancora la scelta. Io ho scelto, con un bello scotto da pagare e vari sacrifici. Almeno ho ripreso a scrivere. Dalila Coviello Presente sul blog: invececoncita.blogautore.repubblica.it/lettere/2017/03/22/ilnostroposto-sono-le-parole-scritte-a-bruxelles/ Cara Concita scrivo a te come si scriverebbe ad un amico d’infanzia emigrato a fare l’ingegnere informatico negli States dopo ogni suo “Aggiornami sulle novità!”. Ho letto l’articolo “Liberi di nascere, liberi di morire”, le parole di Monica sulla creatività tradita di noi giovani e accolgo il suo invito a rivendicare #ilnostroposto. Lo accolgo in maniera del tutto controcorrente, oserei dire, visto che ad oggi l’hashtag più surreale da facebookite è senza dubbio #ilovemyjob. Salvo poi scoprire in the real life contratti di lavoro improbabili e mansioni corrispettive sempre sotto la media, per non rischiare di far sentire inferiore il boss di turno. Ho 29 anni, 30 verso la fine di quest’anno, non ho un contratto a tempo determinato/indeterminato, non ho un compagno, non ho figli, né casa né auto di proprietà. Figlia della generazione Erasmus, voucherdipendente, mi muovo di continuo grazie a Flixbus e Ryanair. Insomma, tutto davvero a rigor di statistica! Salentina di nascita ma cittadina del mondo acquisita, sogno ancora una terra dove qualcuno possa rispondere a seguito dell’invio di un cv, mandare un feedback dopo un colloquio o, addirittura, anche deliberatamente decidere di darmi l’opportunità di diventare ciò che vorrei tanto essere. All’età di 18 spaventata dal mondo e rassicurata dalla tiepida vita di provincia decido di intraprendere l’università a soli 50 km da casa, ben presto però di ritorno da sei mesi di baldoria sull’isola di Cipro mi rendo conto che sarà assolutamente necessario continuare il mio percorso di laurea magistrale da perfetta fuori sede. La vera me nasce proprio in questo periodo e in questo posto a cavallo tra le Marche e l’Emilia Romagna, dove all’età di 25 anni divento una giovane e promettente dottoressa in Comunicazione e Pubblicità per le Organizzazioni. Avrei voluto fare tanto altro, ma questa resta ad oggi una tra le scelte più illuminanti che abbia mai fatto in vita mia. Materia vituperata, vilipesa e bistrattata la comunicazione ma altamente inafferrabile, un po’ come me! Con la laurea in una mano e tanto ottimismo nell’altra, sulla scia dell’ultimo decennio pugliese, cavalco l’onda dei milioni di euro di incentivi pubblici messi a disposizione dalla nostra regione per i giovani di provenienza proletaria e parto per un master all’estero, per un anno, in Polonia. Un master in Turismo e organizzazione di eventi che mi ha dato l’opportunità di un super stage all’Ente Nazionale del Turismo Polacco, all’ottavo piano di un grattacielo nel centro di Varsavia. Con un po’ di Europa in saccoccia torno in Italia, e più esattamente in Puglia e più esattamente in provincia di Lecce, ricca di numerose aspettative e anche miracolosamente convinta che avrei vestito i panni del nuovo Gandhi. Scopro però ben presto - a dispetto di tante beneamate illusioni - che nel Bel Paese il mondo della meeting industry è già decisamente full. Figli dei figli dei figli già in lista: senza lauree attinenti né passaporti, pronti a far da segretari o event assistant - che fa più figo - ai padri dei padri dei padri. E attenzione (errore che ho pagato con il sangue, amaro!) a pronunciare meeting industry con la giusta intonazione oxfordiana perché altrimenti per te, chicca, non c’è posto nemmeno per un tirocinio Garanzia Giovani retribuito - chissà quando - 400 euro al mese fuori sede e senza alloggio in un buco di piffero chedavveroteloraccomandoperandarciinvacanza. Figuriamoci per andarci a vivere! Dopo diversi tentativi decido dunque, riacquistata un attimo di lucidità, di cancellare qualsiasi tipo di traccia che richiami anche solo lontanamente a questo magico mondo di cinquantenni impauriti ormai sull’orlo dell’epilogo – fatte salve rarissime eccezioni – e torno a concentrarmi su ciò che solo un anno e mezzo prima mi aveva talmente entusiasmato da farmi credere che tornare a Lecce, in provincia di Lecce, sarebbe stata una bellissima idea. Ad oggi mi occupo di comunicazione, social nel dettaglio, perché tanto quello che conta più o meno per tutti in questo tempo è saper scrivere duetrecose da pubblicare ogni tanto su Facebook e poi fa niente che hai studiato comunicazione, tanto se non lo vuoi fare tu con i voucher - che a volte presi da uno slancio di ottimismo chiamiamo con termini un po’ più aulici - stai tranquilla che “il fratello dell’amico di mio cugino è bravissimo a scattare foto e quindi me le pubblica lui duetrecose ogni tanto, non ti preoccupare!“ Serena Merico Presente sul blog: invececoncita.blogautore.repubblica.it/lettere/2017/03/18/ilnostroposto-della-generazione-voucher-dipendente/ Mi chiamo Patrizia e sono una dottoranda in Agronomia alla Pennsylvania State University, PA, Stati Uniti. La mia storia comincia anni e anni fa, quando da bambina mio nonno mi portava a fare lunghe passeggiate in campagna introducendomi al meraviglioso mondo della natura. Ovviamente, mentre annusavo fiori e eccarezzavo le cortecce degli alberi, ancora non sapevo che dopo il liceo mi sarei iscritta alla facoltà di Science Forestali. Sono cresciuta, però, con questa attrazione nei confronti della natura e questa attrazione, nel tempo, è maturata in passione. E le passioni vanno seguite, o almeno ci si prova. Le delusioni e la sfiducia nel sistema universitario italiano, purtroppo, non hanno tardato ad arrivare. L'ultimo anno della mia laurea triennale, il corso in Scienze Forestali all'Univesità degli Studi di Bari, fu chiuso. Punto, fine, cancellato, eliminato. In quel periodo, ricordo, stavano chiudendo tutti i corsi non ritenuti necessari. Quindi, chiudendo il mio corso, anch'io non ero necessaria? Beh, non sono mai stata una che si lascia trascinare dalla corrente, ero certa e fiduciosa nella mia passione quindi ho preseguito in questo percorso ''non necessario''. Il primo sacrificio andava fatto però. Trasferirmi lontano da casa, a Pisa, per la laurea specialistica in Progettazione e Gestione del Paesaggio. Cos'altro potevo fare? Era chiaro che, al Sud, il paesaggio non era una priorità ergo io non ero una priorità. Bellissima esperienza a Pisa e sarei voluta restarci. Se per un lavoro o per il dottorato non so dirlo. Posso dire però che vedevo i miei colleghi universitari combattere e amareggiarsi per un lavoro nel mio campo, un lavoro che non c'era. Allora mi dissi che il dottorato sarebbe stata la cosa migliore ma, anche qui, non c'era possibilità di crescita in ambito accademico. Tutti i concorsi per la carica di professore erano bloccati e se non ci sono professori, un dottorando in che crescita lavorativa può sperare? Non parliamo poi del compenso economico di un dottorando... E così, dopo il primo passo da casa a Pisa ho fatto un lungo salto oltreoceano negli Stati Uniti. Lasciare amici, famiglia, luoghi, il cibo! Non mi si fraintenda, ero eccitatissima all'idea ma, chissà, se le condizioni fossero state favorevoli, sarei partita comunque? Dopo 8 mesi posso dire che l'America non è un sogno ma c'è ricerca e, a livello accademico e professionale, può restituirmi quello che l'Italia mi stava togliendo...la mia passione. Mi manca l'Italia e come se mi manca ma tornarci adesso a che pro? Cosa ha da offrirmi? Smuoviamo le acque e le coscienze in modo che, i giovani come me, non debbano neanche pensare di abbandonarla l'Italia! Patrizia Rollo Presente sul blog: invececoncita.blogautore.repubblica.it/lettere/2017/03/15/ilnostroposto-vi-scrivo-dalla-pennsylvania/ |
Autore
Monica Montenegro, 28 anni e mezzo, segni particolari “inquietudine”. Sul curriculum un ultimo lavoro da stagista legale. Lei vorrebbe seguire i suoi sogni, vorrebbe anche scrivere e cercare #ilnostroposto…quello dove nessun ragazzo si sente escluso o non all’altezza delle sue aspettative. Archivi
Giugno 2017
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