Da bambina mio padre mi convinceva del fatto che scrivere storie fosse il modo migliore di raccontare se stessi. Infondo ero solo una dodicenne nata e cresciuta in un luogo privo di interessi e ai miei occhi il cemento e il grigio di quella città risultavano essere ogni giorno più opprimenti. ‘’È una questione di età’’, dicevano. ‘’Prima o poi ti abituerai’’, ripetevano. E giuro che ci ho provato. Nel frattempo il liceo, poi la prima esperienza universitaria e iI sentirsi improvvisamente grandi, le tante lodi negli studi, l’aspirazione e la voglia di non fermarsi, di non accontentarsi. L’innamorarsi di una terra così preziosa come le Marche, decidere di continuarei tuoi studi lì e realizzare che paradossalmente, proprio nel momento in cui provavi ad allontanarti da quei luoghi che tanto ti avevano deluso, ti ci affezioni sempre piu’ attraverso le persone e le difficoltà comuni e le esperienze condivise. Una laurea in Storia dell’Arte, una lode, apparivano allora come la migliore conclusione di quella prima esperienza lontano da casa. Le speranze e le grandi idee animavano ogni mio giorno. Poi il buio. Lo scontro con la realtà così subdola da lasciarti basita e inerme. Non eri pronta a questo. Non eri pronta al ritorno in Puglia, agli anni impiegati nel cercare quel lavoro che mai arriva e te, che non puoi contare sul comodo aiuto di nessuno, metti pian piano da parte i tuoi progetti e continui a chiederti se mai il tuo momento arriverà. Le porte chiuse in faccia, tante. Risposte non ricevute, troppe. E poi la depressione, l’anoressia, il non riuscire più a vivere la tua vita. L’estraneamento, i lavori sempre più sbagliati, la tua dignità venduta. Il ritorno marchigiano e il fallimento delle tue troppe qualificazioni che ti valgono lavori da poche centinaia di euro al mese e una frustazione perenne. Non saprei essere piu’ obiettiva nel raccontare di me stessa prima di questo nuovo capitolo di vita che mi ha condotto oltremanica. Credo di avere impiegato un paio di anni e tante notti insonni prima di realizzare che non ero io a sbagliare e che la paura, il terrore di sapere che oltre il tuo comodo posto c’e’ di meglio, e’ un male che affligge tanti. Ma non lui. Lui sì che ce l’ha quel coraggio. Lui che decide di lasciare il suo lavoro in Italia per reinventarsi una vita con te altrove. E allora i tuoi mali li affronti. Non che da un giorno all’altro te li scrolli di dosso, ma comunque ci provi se non per te stessa almeno per lui. Non racconterò di avere una vita perfetta, nè che è stato così semplice rimettersi in gioco. Ma oltre i tanti sacrifici, gli ostacoli e le lacrime c’è quella silenziosa sensazione di felicità che ti pervade ogni giorno quando ti svegli incrociando i suoi occhi, quando parli e sorridi con sconosciuti incontrati per strada. Quando conosci, esplori, valuti, vivi. Ecco, io vivo mentre leggo di chi ha deciso, diversamente da me, di restare in Italia. Ascolto storie fatte di soddisfazioni, di traguardi, di quei pochi che ce l’hanno fatta ma anche di quei tanti che preferiscono lasciarsi plagiare e assopire da una realtà senza stimoli. Amo il romanticismo di chi coscienzosamente combatte giorno dopo giorno per quel diritto ad avere un futuro nella propria terra. Ammiro chi ci crede e si impegna concretamente in ciò. Ma non te che mi elenchi quotidianamente le disfatte dell’umanità, le condizioni in cui versa il tuo Paese, la tua disoccupazione, i ricatti lavorativi, la rabbia nei confronti di politicanti di turno, la sparatoria nel tuo quartiere mentre posti foto di falsi sorrisi serali perchè bisogna apparire felici. E allora la rabbia assopita mi risale di getto. Lavorare e vivere in un sistema che ti calpesta e svilisce è la più grande sconfitta. Lavorare per 4 euro l’ora, 12 ore al giorno senza un regolare contratto è ledere la tua dignità. Necessitare di soldi per permettersi un lavoro, questo è oltrepassare il limite. In questi anni ho avuto modo di incontrare e parlare con tanti italiani che hanno deciso di intraprendere e condividere la mia stessa esperienza. E vi dirò che quì quei sorrisi sono veri. Ho condiviso storie con proprietari di locali che hanno ormai dimenticato la loro lingua, ho discorso con genitori che hanno creato una propria famiglia e con I figli che hanno la possibilità, a noi negata, di scegliere ed essere liberi di scegliere. Perchè qui il sudore conta e il lavoro gratifica. Pubblicizzato ovunque, il minimum wage britannico prevede una sorta di implicito do ut des. Allo scocco del nuovo anno fiscale il minimo salariale incrementa di una media di 30 centesimi l’ora in una sorta di sadico meccanismo che prevede un scambio di diritti e doveri cittadino-Stato. E allora ti senti piacevolmente obbligato a contribuire perchè sai che il giardino pubblico di fronte casa sarà potato alla perfezione, perchè sai che quei rallentamenti stradali ti risparmieranno bestemmie e meccanici, perchè sai che il tuo straordinario servirà a viaggiare, contribuirà ad accrescere la tua voglia di conoscenza. Ecco mio caro Briatore di turno che quella necessità di partire si trasforma in volontà di restare. E l’unico motivo per cui non trovi il tuo personale qualificato in Puglia è perchè quelle qualifiche preferiamo sfruttarle altrove, dove il merito non è una pergamena ma un lavoro, uno stipendio e un viaggio. Chiediti il perchè preferiamo lavorare come camerieri in affollati locali londinesi piuttosto che nel tuo Olimpo. Chiediti il perchè della vergogna nel motivare la mia partenza e spiegare ad un altro il futuro negato, la mia libertà violata in patria. Chiediti della mia frustrazione nel leggere quella brochure referendaria che comincia con un ‘’Cara italiana, caro italiano’’. No, io non mi sento italiana se questo significa sacrificare sè stessi per ideali fasulli. Io mi sento libera di appartenere al mondo che ho scelto . E sì, io mi sento italiana ogni volta che ripenso al profumo di agrumi e salsedine del mio Gargano, alle distese di ulivi e alla terra bruciata nella calura estiva, tutte le volte che ho l’occasione di gustare sapori così decisi e amari come la terra da cui nascono. Sono orgogliosa di esserlo all’estero grazie agli sguardi degli inglesi che amano, viaggiano e apprezzano, dell’enfasi con cui esaltano il nostro genio, la nostra cultura, con l’amore con cui custodiscono la nostra arte. E allora restate in Italia ma solo se volete concretamente lottare per voi e per Lei. Oppure osate, fuggite, lasciatevi quelle migliaia di kilometri alle spalle ma riprendete in mano la vostra felicità, ricomponete e reiventate la vostra vita come meglio potete. Scegliete egoisticamente di vivere. Mary McPhill
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“- Perché sei andato via? - Perché, tra le altre cose, il futuro dalle mie parti è sempre altrove, e credo proprio che questo luogo comune sia la semplificazione più complessa che io abbia mai dovuto vivere in tutta la mia vita…” Ciao, mi chiamo Francesco, e se qualcuno mi dovesse fare la domanda di cui sopra risponderei esattamente allo stesso modo, perché è la stessa identica risposta che ho dato a me stesso tempo fa, e che continuo a darmi ancora adesso senza possibili variazioni. Sono andato via quindi, e quel “via” si chiama Messico. La mia partenza è stata un mix di cose: raggiungere assolutamente una persona; frustazione accumulata; disillusione reiterata; volontà di trovare un posto che mi facesse del bene; in una parola: cambiare vita. Ma sono partito senza pensarci troppo, perché o fai così o alla fine non parti più: era l’innocenza dell’atto che avevo bisogno di rispristinare dentro di me. Quando vivevo in Italia, ero riuscito ad avere un incarico come ricercatore sociale (una cosa rarissima). Dopo tanto studio sudato, e svariate esperienze in giro per l’Europa e il mondo, finalmente ritornavo nella mia città più amata: Bologna. Mi avevano proposto un progetto di ricerca sociale che andava ad investigare le realtà degli asili nido presenti in un Comune limitrofe, per poi far emergere il tipo di qualità offerta dal Comune su quel tipo di servizi. Una cosa bellissima. Un’esperienza che non ha eguali nella mia lunga formazione. Dopo aver concluso i lavori infatti, mi diedero anche l’opportunità di curare una pubblicazione sulla ricerca stessa, in pratica: un libro di ricerca sociologica con sopra scritto il mio nome. Un sogno che si realizzava. Purtroppo però viviamo in un mondo in cui il settore pubblico viene visto come il nemico numero uno da combattere (“perché è lento, perché spreca risorse, perché non è flessibile, perché in pratica non se ne può più”), e per questo motivo deve essere smantellato ad ogni costo, senza se e senza ma, a favore delle privatizzazioni selvagge senza quartiere; a favore di quel settore di mercato tanto decantato quanto tenuto a briglie sciolte perché è l’unico – dicono – in grado di fornire il servizio migliore in assoluto: perché è la sua indiscussa “mano invisibile” che poi sistemerà tutto quanto. Ma se questo settore non viene regolamentato a dovere, non potrà mai garantire l’uguaglianza delle opportunità: non potrà mai garantire l’uguaglianza dei diritti. Senza un settore pubblico forte, un Paese che si definisce tale può ritenersi solo allo sbando: non guarderà più tutti i suoi cittadini (o quello che ne resta) allo stesso modo, e solo chi potrà permetterselo potrà avrà accesso a certi servizi primari. In pratica, i diritti di tutti, e le garanzie universali, vengono soppiantati. Così, visto il deserto di possibilità che si stagliava subito dopo quella mia esperienza – dove si cercava di salvare gli ultimi brandelli/rimasugli di un servizio pubblico ancora funzionante, (e parliamo della zona di Bologna, che qualche decennio fa era il fiore all’occhiello dell’Europa intera e punto di riferimento per quanto riguarda il comparto sociale) – mi sono ritrovato a mandare di nuovo curriculum per ogni dove, senza ovviamente ricevere risposta alcuna: un silenzio siderale, per vie telematiche e non. Per sfogare dunque tutta la mia rabbia, e tramutarla in qualcosa di positivo, ho cominciato a scrivere e a buttare giù tutta la mia competente frustrazione, e con alcuni amici abbiamo aperto un blog parecchio impegnato (e piuttosto interessante) che di nome fa “Il Conformista”: un progetto interdisciplinare che osserva la complessità della realtà valorizzando le differenze, per poi metterle a sistema – fateci un giro se vi capita: contiene articoli che rimangono in testa. E per l’appunto quegli articoli, le letture appassionate e la continua ricerca innata, oltre a salvarmi la vita in un periodo di “pausa forzata”, hanno fatto da sfondo e da accompagnamento al mio passaggio oltre oceano. Il cambiamento, ovviamente, non avviene mai d’incanto subito dopo che metti piede nell’altro paese (“la cosa più difficile è fare il primo passo”, dicono). Il cambiamento, al contrario, è un continuo costruirsi: è un continuo dialogo con se stessi. E quel primo passo esiste, certo, ma non è l’unico prima di una discesa libera; ce ne sono tanti altri dopo che te la fanno prendere bene o te la fanno prendere male, e il tutto dipende da quell’equilibrio sofisticato, da quel gioco infinito che si costruisce tra un prima e un dopo, tra quello che senti di essere e di portare dentro e quello che, pian piano e senza accorgertene, ti sta impercettibilmente trasformando. Arrivato in terra straniera mi sono azzerato, mi sono “raschiato con un raschietto”: ho dovuto rifare tutto il percorso partendo dall’inizio. E così ho incominciato a lavorare in un pseudo-ristorante italiano come aiuto cuoco e lavapiatti (più come lavapiatti però). Le giornate passavano faticose, e l’adattamento alla nuova vita si scontrava con i dubbi, le perplessità, l’abbandono prematuro da parte del mio Paese, che ha speso così tanti soldi per formarmi da decidere poi di regalarmi senza rimpianti ad un altro paese, come se nulla fosse, come una risorsa già bella e pronta per l’utilizzo. E di fatti, non è mancata occasione per farmi notare, e dopo alcuni mesi ecco il mio primo incarico come professore universitario d’Italiano. Bastava una buona esperienza alle spalle (lauree, master e caterve di cose) e il fatto di essere madrelingua (cosa che qui, nell’insegnamento della lingua, scarseggia parecchio). Il resto, poi, è venuto da sé. Dopo sei mesi di insegnamento, il direttore del centro di lingue – visti i risultati e i miglioramenti apportati ai corsi, e visto anche l’interesse suscitato negli studenti che ha incrementato di molto il numero d’iscrizioni – mi ha assegnato piena titolarità dell’insegnamento: ciò significava adottare un libro d’italiano per il centro di lingue, organizzare e pianificare tutti i livelli in cui si sviluppano i corsi, ed essere il responsabile che decide a che livello di conoscenza sei con la nostra amata lingua, per poi eventualmente firmarti una certificazione ufficiale dell’università. (Ah, per inciso: insegnare la propria lingua è una delle cose piu difficili che mi è capitato di fare nella vita: devi conoscere perfettamente te stesso, studiare come uno straniero la tua lingua perché certe cose “si dicono così e basta”, e riuscire a spiegarti nel modo più semplice che puoi: chi conosce veramente se stesso? perché “diciamo così”? come si fa a rendere la complessità di una lingua (e di un’intera cultura) intellegibile e interessante? Bisogna diventare degli attori: un insegnante di lingue è prima di tutto un attore, ed io, in questo ruolo, non mi ero mai cimentato). Ovviamente non è stato tutto così semplice, e tuttora ancora non lo è. Non sono assolutamente un professore “a tempo pieno” assunto dall’università. Sono semplicemente “un libero professionista” che “offre servizi”. E per ritornare al nostro caro discorso sul settore di mercato, se non c’è domanda da parte di alcuni studenti curiosi io non posso avere delle classi mie; quindi, non posso avere il caro e tanto atteso stipendio alla fine del mese. Ecco perché ho dovuto, per necessità di sorta, guardarmi ancora una volta attorno, e cercare altro “di fisso” che mi aiutasse a pagare la sopravvivenza basilare. Ora lavoro a tempo pieno in un’impresa metalmeccanica nel settore risorse umane, e sono professore all’università quando ci sono studenti con gli occhi grandi così per la curiosità. Lavoro tante ore al giorno (esco tutti i giorni di casa alle 7:30 di mattina, e ritorno verso le 9:30 di sera), e questa cosa non è buona (come in tanti dicono che sia). Quando ho qualche buco libero (raramente), vengo ricercato come risorsa scarsa da chi vuole viaggiare in Italia, e si crea quindi l’esigenza ad hoc di voler conoscere qualche espressione pratica da poter poi utilizzare come turista (in pratica, do anche lezioni particolari e su misura). Per il resto, penso sempre al mio Paese, e ad un mio probabile – e sempre più lontano – ritorno. Quando mio padre incontra qualcuno per strada che gli chiede di me, risponde con convinzione che “sì, sta lì, ma il suo posto dovrebbe essere qui”… Ho rinunciato a tante cose per vedere questo cielo dalle "famose nuvole": il sorriso inconfondibile di mamma, l'eterno abbraccio di papà, la birra l'estate con i miei insostitubili fratelli, il matrimonio siciliano di un altro fratello acquisito, le chiacchiere metafisiche alle due di notte sulle panchine di mare con gli amici di sempre, tanti incontri di altri amici sparsi per ogni dove, etc etc etc. Ma qui al mio fianco ho la persona più preziosa e straordinaria che possa esistere, una persona che non ti toglie l'anima, ma te l'arricchisce con disinvoltura con le tante sfaccettature che più desideri per te, e ho anche i miei pittoreschi “alumnos”, che vedono in me un punto di riferimento che cerca di aprire le finestre giuste su un'altra cultura: la nostra. Non si può avere tutto dalla vita, e chi lo vuole è solo un vile. Bisogna imparare ad essere il lavapiatti di se stessi, e quindi fare ordine, strofinare le cose che si hanno dentro, pazientare, fare pulizia distratta ma minuziosa, lavorare sulla temperatura dell'acqua, essere umili, farsi scorrere quell'acqua addosso, e chissà se un giorno quel mio stesso "essere in movimento" possa essere impercettibilmente paragonato alla qualità inconfondibile che hanno quelle nuvole: la radicale libertà di poter assumere tutte le forme che vogliono. Francesco Paolo Cazzorla ( Zu Fra ) Sono Ilenia, ho 31 anni e questa è la mia storia. Mi sono diplomata come Perito Commerciale ad Indirizzo Amministrativo (ex diploma di ragioneria) nel 2006 e nello stesso anno mi sono iscritta all’Università, Facoltà di Economia, corso di laurea in Economia delle Banche e delle Assicurazioni. Non ho voluto pesare troppo sulle spalle dei miei genitori così nel 2008 ho iniziato a lavorare part-time in un call center come operatrice inbound. Lavorare e studiare non è stato facile, ho avuto anche molti problemi di salute in quegli anni che hanno contribuito a rendere ancora più difficile conciliare lo studio con il lavoro. Nel 2011 ho iniziato a stare meglio e ho capito che l’economia (più in particolare la matematica in realtà) non facevano per me. Il diritto mi ha sempre appassionata ed era la materia in cui eccellevo. Allora ho lasciato tutto, spinta dalla passione, ho deciso di intraprendere un percorso di studi differente: mi sono iscritta al corso di laurea in Scienze dei Servizi Giuridici ad indirizzo Impresa, Facoltà di Giurisprudenza, laureandomi nel 2015 con una buona votazione, 95/110. Avevo deciso cosa fare “da grande”: volevo fare la Specialista Legale in un'impresa. Decido perciò di parlare con i responsabili dell’ufficio del personale dell’azienda per cui lavoro per candidarmi e avere la possibilità di entrare a far parte dell’ufficio legale-amministrazione del personale ma senza esiti positivi, non perché l’ufficio sia già adeguatamente strutturato ma, perché preferiscono persone “che conoscono già certi meccanismi interni…”(????????). Ció che mi affligge tutt’ora è che non mi hanno mai dato la possibilità di dimostrare le mie effettive competenze e capacità oltre che considerare il mio REALE desiderio di continuare ad imparare. Delusa ed amareggiata, inizio ad inviare CV ad aziende, studi legali, mi sono iscritta ad ogni sito per la ricerca di un impiego. Non posso darmi per vinta. Voglio fare un lavoro in linea col mio percorso di studi, che mi piaccia e che mi gratifichi ma soprattutto che mi permetta di essere autonoma economicamente perché con un mezzo stipendio non ci paghi nemmeno mezzo affitto. Ho inviato centinaia di CV ma senza riuscire ad ottenere alcun colloquio: se sei assunta a tempo indeterminato non vieni affatto considerata perché i recruiter sanno che non accetteresti mai uno stage di 3 mesi. L’unica offerta che ho ricevuto però è stata da un’amica: “...In questa prestigiosa società cercano una ragazza che faccia telemarketing outbound e visto che tu hai esperienza nel settore…”. No, non ho esperienza di telemarketing. Perché quando sul CV si legge che lavori in un call center tutti pensano che passi la giornata a “vendere aria fritta”. No. Io sono una segretaria di centralino, passo chiamate, pendo messaggi, prenoto appuntamenti. Non vendo nulla. Ma ugualmente, a priori, ti considerano senza alcuna esperienza se non quella di "rispondere al telefono". Ormai con un’ansia cronica e disperata, sto tentando di accedere al settore pubblico, tramite il ginepraio di concorsi pubblici, dove non si sa se è davvero la meritocrazia che vince o la raccomandazione interna. Io voglio essere economicamente indipendente e creare una famiglia insieme al mio fidanzato ma nella condizione in cui mi trovo ora come faccio? È dignità questa? Ilenia Margani La domanda più difficile a cui abbia mai dovuto rispondere me l’ha posta Sophia, una bimba di otto anni, quando mi chiesto: «Ma tu da grande che lavoro vuoi fare?». Io, che di anni ne ho trentatré e di lavori ne ho svolti tanti, le ho risposto: «Quello che mi permetteranno di fare», distruggendo in un attimo i sogni di due generazioni, la mia e la sua. Spero che Sophia, col tempo, dimentichi le mie parole e non perda mai la volontà di autodeterminarsi come individuo e soprattutto come donna, volontà che un tempo io avevo, ma che strada facendo ha lasciato il posto ad una mera volontà di sopravvivenza. Fin da piccola mi dicevano che possedevo una grande fantasia, e da sempre ho creduto che quella fantasia mi avrebbe portata lontano lontano, anche quando, nel periodo in cui tutti i ragazzi sognano, sperano e amano, i miei genitori hanno chiesto il mio aiuto. Ma questo non mi ha fermata e con gli studi intrapresi ho cercato un’opportunità di riscatto e di affermazione. Ho affrontato gli studi triennali in Comunicazione e la specializzazione biennale in Giornalismo e Multimedialità con picchi di entusiasmo e abissi di delusione prevedendo quello che purtroppo temevo, che la cultura e la creatività non pagano. Ma continuavo. Concluso il mio percorso avrei voluto mettere a frutto la mia creatività, il mio senso del dovere, la mia passione per la letteratura, lavorando nel mondo dell’editoria e della comunicazione. Ma ho incontrato solo lavori gratuiti, non riconosciuti, ripagati con l’ambiguo soldo della “visibilità”, con cui, però, non sono riuscita a mangiare, a fare benzina o addirittura - quale abominio - comprare casa. E mentre ancora tento di capire gli strani meccanismi che portano il figlio dell’amico, del cugino del cognato, a ricoprire ruoli per cui non hanno la minima competenza, mi chiedo, ogni santa mattina, che cosa io stia sbagliando, e perché la mia antica terra accantoni le sue risorse migliori, i suoi figli. La mia sfida più grande la affronto ogni giorno restando nella mia regione, la Puglia. Credo di aver dovuto rinunciare ad una parte di me, che forse non coltiverò mai, ma un’altra me, testarda, fa capolino nei giorni più bui, quando mi si nega un contratto di lavoro, quando mi si dice siamo tutti volontari, quando il mio curriculum viene cestinato senza essere letto, quando chiedo aiuto e in cambio ricevo solo parole di conforto e speranze poi disattese. Ho accettato di amare questa terra in tutte le sue forme, con i suoi malesseri e le sue contraddizioni, dove il futuro si costruisce giorno dopo giorno, e lo costruiscono i ragazzi che decidono di rimanere o di ritornare, con grandi competenze e voglia di fare. Sperando che questo diventi #ilnostroposto Serena Tarantini Mi presento sono Giada, una studentessa di 22 anni, sono iscritta alla facoltà di lettere con indirizzo di design e discipline della moda. Dedico il pomeriggio allo studio, non amo le biblioteche, lo stare in silenzio. Amo la gente, per questo studio in un bar/bistrot, amo guardare le persone che frequentano questo posto, immagino le loro vite, qui ci sono gli abitudinari come me e la gente di passaggio. Oggi ero seduta al mio solito posto, dei bambini stavano festeggiando in questo locale e sono venuti da me offrendomi dei biscottini, mi sono commossa ed inesorabilmente ho incontrato lo sguardo di Monica Montenegro. Le ho confessato da perfetta sconosciuta che ho un’emotività forte e che, in una giornata cosi no, non potevo che essere rallegrata da dei bambini. Un gesto così semplice, mi ha riempito il cuore. Abbiamo parlato tanto, mi ha raccontato i suoi progetto nato da poco ‘il nostro posto’, e il suo mondo, così ho fatto io. Sono una studentessa che ‘da grande’ vorrebbe essere una stilista di alta moda per questo si sta dedicando come meglio può allo studio, ho lavorato per tre anni come fotomodella, un anno come commessa in una boutique e nel tempo libero mi dedico a dei bambini come babysitter. Lo studio è ora per me fonte di energia, di soddisfazione, il mio percorso è ancora lungo ma ce la sto mettendo tutta. Ho dovuto accantonare il lavoro di fotomodella, perchè lavoro è a differenza di quello che è l’immaginario comune qui al sud, labor dal latino fatica, implica energie ma anche una retribuzione. Purtroppo qui in Puglia, non è sempre concepito come tale, e diciamo che le mie caratteristiche fisiche non corrispondono agli standard, non sono una ‘stangona’, mi definiscono una bellezza particolare, una sorta di fata, ninfa; uno spirito racchiuso in un corpicino. Era un sogno, che per un periodo della mia vita si è realizzato, che è stato tangibile e reale anche con la pubblicazione di una foto che mi ritraeva, sull’archivio fotografico di Vogue, ma ripeto qui ti ostacolano e se non ti sposti un po’ più a nord non puoi concretizzarlo. Io non ho intenzione di andare via dal mio ‘bel paese’, mi ritengo fortunatissima ad essere nata in una nazione che possiede il 50% del patrimonio artistico mondiale. Non voglio strappare le mie radici; il mio essere è quello che è grazie a questi luoghi, al mare di cui si sfamano i miei occhi, al vento che culla i miei capelli, le mie idee sono generate da questo posto meraviglioso e non voglio andare via per rendere le mie idee utopistiche realtà. Avrei proseguito i miei studi in relazione al lavoro di fotomodella, perché entrambe queste passioni sono il cibo del mio essere; ma qui non si può, troppo bassa, la vita troppo stretta, il seno piallato ed il fondoschiena troppo largo, per non parlare dei capelli, sono rossa (dono genetico di mia nonna), insomma nulla a che vedere con le caratteristiche mediterranee che tutti richiedono. Raramente qualcuno abbandona questi canoni e decide di ritrarmi. Io non andrò via, io non sradicherò il mio essere, questo è il mio posto nel mondo e lotterò per poter realizzare i miei sogni qui, in Italia, in Puglia. Ringrazio Monica, che ha estrapolato dalla mia mente i miei pensieri e mi ha chiesto di metterli nero su bianco, la commozione non è mancata, e concludo citando lei : ‘i sensibili si riconoscono’ , apriamoci al mondo, alle persone che non devono mai diventare gente sconosciuta, abbiamo tutti qualcosa da dare, abbiamo tantissimo da ricevere dagli altri. Giada Zonno Caro Flavio Briatore ti scrivo, così mi rilasso un po'. Tu dici che i giovani che restano in Italia sono dei falliti e dei fannulloni, che chi ha realmente voglia di fare va all'estero. E ti domandi come si faccia a vivere con 1300 euro al mese. Sai, è una domanda chi ci poniamo in tanti, tutti quelli che a 1300 euro forse neanche ci arrivano. Mi sono chiesta come si faccia a vivere con 1300 euro al mese quando ho dovuto fare una colletta per curare un cane salvato dalla strada. Mi sono chiesta come si faccia a vivere con 1300 euro al mese quando ho dovuto chiedere il prestito in banca per pagarmi le visite mediche. Mi sono chiesta come si faccia a vivere con 1300 euro al mese quando il costo delle bollette supera quello che guadagno. Perchè nonostante io sia una "fallita" rimasta in Italia, a 28 anni con una partita iva in tasca e le tasse da pagare, sono andata a vivere da sola. Sai Flavio, io mi sveglio ogni mattina, esco di casa alle 8 e ci ritorno alle 10 di sera, quando mi va bene. Ho 2 lauree, un master e infiniti corsi, stage e gavette nella valigia. Nella mia vita ho fatto tutti i lavori possibili e immaginabili. E come me, ti assicuro, ne conosco tanti. Ingegneri di giorno, camerieri di sera, musicisti di notte. Noi ci chiediamo come si faccia a vivere con meno di 1300 euro al mese mentre ci spacchiamo le ossa. Non abbiamo una casa di proprietà, nè una Ferrari nè una barca di lusso. Ma abbiamo l'amore per la nostra terra, il profumo delle radici che ci hanno cullato e anche quello del ragù della domenica. Tu non capisci quale sia la sofferenza di chi vive lontano da qui e allora provo a spiegartela. L'abbraccio di una madre, il sorriso di una nonna, i primi passi di un nipote, non valgono 1300 euro. Provare ad essere ciò che si vuole essere nel posto che si ama, non vale 1300 euro. La felicità è quella che ritroviamo nel nostro sudore alla sera, che puzza di fatica, di onestà e di semplicità. Che puzza di calzone di cipolle a Pasqua e di lenticchie a Capodanno. Che puzza di mare al mattino e di campagna alla sera. Avere il coraggio di restare mentre quelli come te dicono di fuggire via è la nostra vera vittoria. Viviana Guarini Presente sul blog: invececoncita.blogautore.repubblica.it/lettere/2017/04/07/ilnostroposto-non-e-quello-di-briatore/ Oggi #ilnostroposto si chiama Rita. Una voce che aveva un sogno, una formazione e tante idee nel cassetto. Ciao Monica, ho letto l'articolo scritto da Concita sulla tua storia, ho letto le tue lettere...ed ora mi sono decisa a far sentire anche la mia voce, partecipando a #ilnostroposto. Io sono Rita, ho 26 anni e un sogno infranto. Credo di rientrare nella categoria dei ragazzi con una "formazione brillante". Ho conseguito la laurea in giurisprudenza in quattro anni e mezzo a 23 anni. Ho fatto pratica in Avvocatura dello Stato con una selezione a monte su base curriculare. Ho preso diversi attestati, seguito diversi convegni e partecipato sempre attivamente ad ogni iniziativa culturale. Ma oggi sono qui. Mi ritrovo a scrivere, dietro un pc, per parlarvi di un sogno che molto probabilmente non si realizzerà mai. Io ho sempre avuto le idee chiare, alla fatidica domanda "cosa vuoi fare da grande?" ho sempre risposto "l'avvocato". Ebbene si, pur non essendo "figlia d'arte" il mio sogno era quello di conquistarmi questo titolo. Studiare per diventare un avvocato di successo. Nel corso del tempo le cose sono però cambiate. Al mio entusiasmo, alla mia volontà, alla mia intramontabile passione per questa professione, si sono aggiunti sconforto, rassegnazione e attesa. Io non ho genitori avvocati e di conseguenza non ho avuto la possibilità, una volta finito il tirocinio presso un ente pubblico, di andare da un avvocato che già conoscevo. Allora ho fatto dei colloqui, non uno solo ma diversi. Decisi di continuare la mia "pratica" presso uno studio nonostante il termine obbligatorio ai fini dell'abilitazione fosse già finito. Perchè si, a me questa professione piaceva, piaceva talmente tanto che io non mi sentivo obbligata, per me era solo un piacere scrivere atti, andare in udienza e leggere sentenze su sentenze. Tutta questa volontà è però iniziata a scemare, "collaborare" (perchè è così che in gergo si dice l'esser sfruttati) senza ottenere neanche un minimo rimborso spese ha iniziato a pesarmi. Ho iniziato a chiedermi dove stavo andando, ho iniziato a domandarmi se era giusto svegliarmi ogni mattina alle sette per andare a lavorare e non essere retribuita, ho iniziato a chiedermi se ero disposta a sacrificare opportunità, tempo e denaro per un qualcosa che a distanza di ormai due anni dalla mia laurea ancora non dava i suoi frutti. Ad un certo punto ho deciso quindi di svoltare. Mi sono resa conto che nonostante il mio profondo ed assoluto amore per questa professione io mi stavo solo illudendo. Perchè si, continuare a lavorare, continuare ad impegnarmi era inutile. Io servivo in studio, ma questo non bastava a far sì che l'avvocato si decidesse a darmi conto in merito anche solo ad un possibile rimborso spese. Allora ho deciso che se non volevo annullarmi come persona, che se non volevo seguire un sogno che molto probabilmente non mi avrebbe portato da nessuna parte, dovevo cambiare. E' così che ho iniziato ad inviare cv nella mia città. E' così che ho iniziato a fare colloqui per posizioni anche diversissime da quello che era il mio "sogno". Ed è così che ho capito che non non si può sempre e solo dare ma è giusto anche ricevere. Perchè si, questo Paese non ti permette di scegliere di realizzare il tuo sogno. E' un Paese che ti forma benissimo sulla preparazione teorica, ma una volta uscita dall'università ti abbandona completamente. Ed è così che mi sono sentita: abbandonata. Abbandonata da uno Stato che pretende cospicue tasse all'università ma che poi non fa nulla per tutelarti una volta iniziato un tirocinio "formativo". Abbandonata da uno Stato che non adotta delle misure idonee a garantire i diritti di chi, come me, ha svolto una pratica con impegno, dedizione ed amore. Abbandonata da uno Stato che si dimentica di tutti quei ragazzi che hanno lottato per ottenere non solo un pezzo di carta, ma un sogno. Io ora lavoro in un altro settore, totalmente diverso da quello che un tempo avrei voluto. Ed oggi, alla domanda "cosa vuoi fare da grande?" rispondo "quello che lo Stato mi permette". Allora Monica, ti seguo, anche se sommessamente sto scegliendo un'altra strada. Vorrei che non fosse così per nessuno di noi, vorrei che tu non fossi costretta a partire per trovare il tuo posto, non aspettando alcuna risposta se non la nostra. Continua a combattere, lottare. Rita De Giovanni Chi scrive è un'inguaribile e tenace sognatrice ahimè disillusa e frenata dal nostro Belpaese. Amante dell arte e della moda avrei dovuto trovare terreno fertile nella nostra Italia ,paese della moda per eccellenza. E così che ho seguito la mia passione credendoci anima e corpo e ho intrapreso studi in questo settore,prima con una facoltà universitaria chiusa dopo 6 anni per mancanza di fondi per un settore di minore importanza e talvolta definito superfluo e non serio come questo,poi in un istituto privato cercando di specializzarmi ancora di più ,credendo di non esserlo abbastanza,e poi partecipando a seminari e a fiere su e giù per l Italia per arricchire la mia formazione il più possibile ed essere pronta nel più breve tempo possibile per il mercato del lavoro. Nei tempi giusti e pronta lo ero,ma per anni e anni di caselle di posta intasate di cv inviati..mentre ti specializzi ancora credendo di non avere esperienza sufficiente..anni e anni di cv consegnati "porta a porta "in ogni parte d'Italia ,e nel frattempo ti trovi a fare una consistente esperienza in quel lavoro che ti eri cercato solo per guadagnare qualche soldo ,magari sempre inerente alla moda per non perdere di vista la tua passione,che in quello per cui hai passato intere notti a disegnare,schizzare e ...cancellare.Piena di questa formazione e esperienza non adeguatamente valutata nel nostro paese se non con aiutini (economici o amicali),è frustrata da un'estenuante ricerca di lavoro,vieni spinto altrove ,magari all'estero, in uno stato che rispetta il lavoro e ti tutela e dove quelle tanto agognate parole come la gratificazione,la realizzazione e la soddisfazione, diventano forse una realtà. L'Italia è il posto più intessuto al mondo di arte cultura e bellezza,peccato che tutta questa bellezza non abbia un "navigatore". Antonella Pietrangelo Presente sul blog: invececoncita.blogautore.repubblica.it/lettere/2017/04/02/ilnostroposto-bellezza-ditalia-senza-navigatore/ |
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Monica Montenegro, 28 anni e mezzo, segni particolari “inquietudine”. Sul curriculum un ultimo lavoro da stagista legale. Lei vorrebbe seguire i suoi sogni, vorrebbe anche scrivere e cercare #ilnostroposto…quello dove nessun ragazzo si sente escluso o non all’altezza delle sue aspettative. Archivi
Giugno 2017
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