Ho un serio problema con le parole. Nel senso che ne uso sempre troppe e nel senso che non mi bastano mai. Sono trent’anni che #ilnostroposto lo cerco a suon di frasi, scritte per lo più. Inutile dire che ancora non l’ho trovato, almeno non del tutto. Ebbene si, io volevo scrivere per vivere, e tutto quello che sono riuscita a fare nel mio Paese è stato collezionare ogni improbabile colloquio, ogni assurda esperienza di non-lavoro e non-contratto e farne un libro. Grazie ad una piccola ed indipendente casa editrice del sud Italia, nel novembre 2014 pubblico Alice nel Paese dei call center. No, non sono diventata J.K. Rowling, ma (pur dovendo combattere per vedere il mio libro nelle vetrine delle librerie “più famose”, o semplicemente per parlarne in una piazza o in una scuola) il ritorno umano che ne ho avuto é stato impressionante. Sul mio conto c’erano sempre pochi euro, ma l’impagabile sensazione di aver finalmente realizzato il sogno della mia vita resta ancora oggi indimenticabile. Nel frattempo, pero’, io continuavo il mio iter. Una laurea in Lingue per la cooperazione internazionale in tasca (te l’ho detto che amo le parole, in qualsiasi lingua esse siano), un lavoro precario a 300 km da casa mia (perché pensare di lavorare nel mio campo nella mia città natale è come pensare di costruirsi una casa vacanze sulla luna), no ferie, no contributi, no diritti, solo “la fortuna” di aver trovato “qualcosa da fare” dopo anni di vassoi serviti, pannolini cambiati e improperi presi al telefono di un call center. Alternavo la rabbia alla rassegnazione, non sapevo quale tra le due dovessi far vincere. Per un po’ ho smesso anche di scrivere. Oltre ai voucher e ai contratti precari, abbiamo iniziato ad essere quelli che fuggono da ogni responsabilità, gli eterni adolescenti, eterni discotecari, eterni “non pronti”. Nel frattempo, guardavo i miei coetanei espatriati che si costruivano una carriera, o una famiglia, o entrambe le cose. Mentre io, stagista anche dopo tre anni nello stesso ufficio, non avevo potere decisionale neanche sul come organizzare le fotocopie, figuriamoci fiorire professionalmente o ambire a qualcosa di più. Perché si, Concita: forse sto abusandone di nuovo, ma di parole da dire sul trattamento riservato ai “dipendenti” o presunti tali ce ne sarebbero tantissime. Non è solo una questione di contratto, ma anche di stimoli, di rispetto, di stima del tuo lavoro – che fai nonostante tutto, e che magari cerchi di fare al meglio incurante delle condizioni non proprio favorevoli. Così è arrivato un giorno in cui la rabbia ha vinto sulla rassegnazione. Ho chiuso un paio di valigie, dato fondo al barile da cui ho raschiato tutto il coraggio che ancora restava e ho preso un aereo. Destinazione Bruxelles, alla scoperta di una città che non é solo cielo grigio come tanti credono, ma multiculturalità, ricchezza di esperienze e soprattutto possibilità. “Liberi di nascere, liberi di morire” e a questo punto anche liberi di espatriare. Un po’ mi dispiace doverlo dire: ma tutti i clichés sull’estero che è la terra dove riesci in quello che il tuo paese ti impedisce, nel mio caso si sono rivelati veri. Ho iniziato con un tirocinio più pagato del mio stipendio dopo 3 anni in azienda, al termine del quale mi hanno offerto un contratto (più pagato ancora) a tempo determinato, che ho rifiutato per accettarne uno a tempo indeterminato in un altro posto. Per ricoprire esattamente il mio ruolo. Perché la mia precedente esperienza è stata valutata come preziosa abbastanza per investire su di me. Forse alla fine mi sono arresa andandomene, dopo aver combattuto per anni, ma ho riacquistato parte della pace mentale persa per strada nel mio percorso lastricato di guerre inutili e situazioni ai limiti dell’assurdo. Come è ovvio che sia, questa non è El Dorado: di kilometri tra dove vivo e dove sono nata adesso ce ne sono oltre mille, e sullo smartphone l’app più importante è quella della compagnia aerea low cost a caccia del biglietto migliore per rubare due giorni “a casa”. Non è facile e mai lo sarà, probabilmente, ma voglio darmi tempo: l’Europa è meravigliosa. La verità è che in Italia ho provato a cambiare lavoro per oltre due anni, da nord a sud, ed il solo colloquio ottenuto mi offriva sei mesi di Garanzia Giovani a 600 euro, a 28 anni, con già due di esperienza. La verità è che ogni “manager” con cui io abbia avuto a che fare nel mio Paese non ha mai perso occasione per sottolineare quanto fossi fortunata che lui stesse anche solo parlando con me, e quanto ogni mia lamentela sarebbe stata inutile perché dietro di me c’era la fila. La verità è che qui, quando dopo 5 mesi ho cambiato azienda e mi è stato fatto un farewell party da colleghi e supervisor, con tanto di discorso, regalo, ringraziamenti per il mio lavoro e auguri per la mia carriera, io ho pianto il doppio di quanto avrei dovuto perché ho pensato a come a casa mia se lasci un posto di lavoro sei un idiota condannato alla disoccupazione, e poco importano i motivi per i quali tu abbia deciso di farlo. La verità è questa e finché non la si tocca con mano, rendersene conto è difficile, ma qui i “ragazzi”, i giovani uomini e donne, possono ancora sognare e rifiutare qualcosa di accettabile per qualcosa di migliore. A noi sono rimaste le parole e basta, loro hanno ancora la scelta. Io ho scelto, con un bello scotto da pagare e vari sacrifici. Almeno ho ripreso a scrivere. Dalila Coviello Presente sul blog: invececoncita.blogautore.repubblica.it/lettere/2017/03/22/ilnostroposto-sono-le-parole-scritte-a-bruxelles/
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Monica Montenegro, 28 anni e mezzo, segni particolari “inquietudine”. Sul curriculum un ultimo lavoro da stagista legale. Lei vorrebbe seguire i suoi sogni, vorrebbe anche scrivere e cercare #ilnostroposto…quello dove nessun ragazzo si sente escluso o non all’altezza delle sue aspettative. Archivi
Giugno 2017
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